Un’ape tardiva
Una caratteristica peculiare del genere umano, comune e caratteristica, è la sua ricerca e aspirazione non alla semplice sopravvivenza, ma al piacere. Non a caso, la Costituzione americana inserisce “l’inseguimento della felicità” tra i diritti fondamentali. Risulta quindi tipico dell’uomo l’essere costantemente teso verso la realizzazione di una vita “piena”, “vissuta”, “da ricordare”.
Un interrogativo sorge però spontaneo: come si può distinguere obiettivamente una vita degna d'essere vissuta da una semplicemente banale? Chi ne stabilisce i valori? Ѐ proprio questo irrisolubile enigma che fa nascere da un lato un’astratta standardizzazione e un prototipo idealizzato di “vita pienamente vissuta”, e dall’altro, l’inquietudine persistente dell'individuo di fronte a questo desiderio di appagamento.
In questo contesto, così universale eppure così oscuro e indecifrabile, quale mezzo migliore della poesia per tentare, almeno, di esprimerne le contraddizioni?
Pascoli, spesso interpretato come un semplice poeta “della campagna”, che si cimenta in una descrizione quasi botanico-zoologica di paesaggi e scene rurali, sviluppa invece appunto questo tema, seguendone le diverse sfaccettature a partire dal l’esperienza che più segna, dal principio, la sua vita, cioè l’omicidio del padre, il 10 agosto 1867. Questo rappresenta il primo chiaro e lampante esempio di un’esistenza non pienamente vissuta in quanto troncata e terminata con violenza, centro di due delle poesie più importanti di Pascoli, X Agosto e La Cavalla storna.
In entrambe si nota un forte simbolismo: nella Cavalla storna, del 1903, l’accusa all’assassino si fa più esplicita, ma l’animale che fedele e imperterrito riporta il calesse del defunto padre a casa, in quanto muto, rappresenta forse simbolicamente l’omertà che insabbia l’omicidio e la mancanza di giustizia che tormenterà per sempre la famiglia Pascoli.
In X Agosto, del 1897, invece, prevale il paragone del padre con la rondine che torna al nido per nutrire i piccoli. Una volta uccisa, non viene cancellata soltanto la sua vita, ma viene condannata quella dell’intero nido, che attende e “che pigola sempre più piano”. L’esistenza bruscamente interrotta di Ruggero Pascoli ha infatti ripercussioni terribili su tutta la famiglia, che da quel momento, oltre a subire una serie di disgrazie, si trova a dover fare i conti con una realtà molto difficile.
Da qui derivano le scelte o forse gli obblighi di Pascoli di abbandonare l’idea del matrimonio per rimanere al fianco della sorella Maria, nella volontà di preservare quel “nido originario” che dà certamente sicurezza, ma che impone pesanti responsabilità morali, limita e quasi imprigiona. Non a caso infatti l’immagine simbolica del nido ricorre spesso nelle poesie, negli scritti e nell'immaginario pascoliani, come rifugio tanto cercato e difeso, ma anche come silenziosa e opprimente cella (cf. in Myricae, Il passero solitario).
Ѐ questa dunque la privazione che più fa soffrire il poeta e che insinua nel suo animo il tarlo di non vivere appieno la vita, di essersi forzatamente escluso dalle gioie e privato delle occasioni di piacere. «Un’ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle»: così Pascoli stesso descrive la subdola inquietudine che lo attanaglia. Nel Gelsomino notturno, infatti, il poeta non si cimenta in quella che a un primo sguardo potrebbe sembrare una placida evocazione di un paesaggio rurale al calar della sera, allietato da fiori, fragole, erba, api, chioccia e pulcini, bensì in una struggente analisi di un rassegnato ma non meno angoscioso stato d’animo. Gli elementi naturali fungono ancora una volta da simbolo: l’ape è il poeta stesso, che trovando “le celle già piene”, le opportunità già perse, sussurra, non protesa rumorosamente, ma si arrende alle conseguenze di un’infelice scelta di solitudine. Delle fragole, rosse come la passione, il poeta può solo percepire il desiderabile odore, ma non assaporarne il gusto.
Ciò diventa ancora più significativo se si considera l’occasione per cui la poesia è stata scritta, ovvero «l’ennesimo matrimonio di un amico» che, come osserva Gioanola in
Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida (Jaca Book, Milano 2000), «riacutizza ferite mai chiuse».
In effetti, davanti all’amore e alla letizia dei suoi amici, Pascoli non può fare altro che constatare il proprio senso di esclusione, pur esprimendo il desiderio e le naturali fantasie. Nel Gelsomino notturno, pertanto, il poeta osserva il calore intimo della casa da fuori, raffigurando se stesso come curioso ma al tempo stesso emarginato; immaginando la calda intimità di quella camera «su per la scala» dove il lume «s’è spento»; sognando infine quella passione erotica alla quale non può partecipare e che, forse, conduce a «non so che felicità nuova».
Effettivamente, non c’è nulla di più triste che esser testimoni della gioia altrui e non poterne far parte e, se tanto aveva polemizzato Pascoli contro la poetica e la filosofia di Leopardi, le conclusioni a cui personalmente arriva non sono poi così agli antipodi. Da un lato ci sono «gli altri», quelli che riescono a godere dell’esistenza, quelli che incarnano il tanto anelato ideale di vita pienamente vissuta, e dall’altro il poeta, escluso, diverso, impossibilitato al raggiungimento della soddisfazione.
Il potere della poesia, a prescindere dall’autore, dall’epoca, dalla corrente letteraria, è quindi la capacità universale di parlare all’animo del lettore, di insinuarsi nello spiraglio che non sapevamo di aver lasciato aperto e colpire dritto al cuore: una capacità universale come l'inquietudine, come la tensione di non sapere quale sia la scelta giusta da compiere per rendere la vita memorabile e felice, nel senso più pieno del termine.
Con così tanti presunti modelli da seguire, e con sempre meno indicazioni per orientarsi, o forse con sempre più informazioni contrastanti, anche per noi, oggi, risulta sempre più difficile sentirsi appagati, trovare il proprio posto nelle «celle» che risultano già tutte «prese».
Ma chi è che decide quali sono le celle da occupare per sentirsi appagati? L’interrogativo originario sembra rimanere senza risposta.
La verità è forse che un’esistenza piena non è quella di chi trova posto nell’alveare, non è quella di chi assapora finalmente il dolce sapore delle fragole rosse, non è quella di chi spegne il lume nella camera su per scala. L’esistenza pienamente vissuta è quella di chi sta fuori sull’aia a guardare, sotto le stelle; è quella dell’«ape tardiva» che, trovando le celle occupate, vaga nella notte in cerca di un fiore, di chi per caso o per volontà non gusta le fragole rosse, di chi sorride dell’amore altrui e del proprio dolore. È quella di chi sceglie e di chi canta fuori dal coro; di chi stona, di chi esplora e crea qualcosa di grande, bello e immortale.
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